domenica 14 novembre 2010

Cronicità e disabilità

Presento due articoli un po' datati ma, secondo me, ancora ahimè abbastanza attuali: segno che il trascorrere del tempo non ha concesso alla medicina delle prime cure di mostrare il suo vero volto e il suo naturale significato.



La medicina generale come spazio naturale della cronicità.

Dal dopoguerra ad oggi siano stati progressivamente abituati ad una modifica delle patologie a grande diffusione: abbiamo assistito al decremento dei grandi quadri epidemico/pandemici che hanno mietuto vittime durante tutti i secoli passati e fino ai giorni nostri. Il ricordo corre immediatamente al colera di Napoli degli anni ’60 come ultimo devastante episodio legato a un agente infettivo (il vibrione); se si è in vena di citazioni letterarie si possono citare le tre classiche pesti della storia dell’uomo: quella del Boccaccio, quella dei Promessi Sposi del Manzoni e quella recente di Albert Camus; ma se attingiamo al ricordo dei nostri grandi vecchi possiamo avere notizie dirette della pandemia influenzale detta “la spagnola” che sconvolse l’Europa a cavallo degli anni 1918-19 e che si riteneva iniziata, con i primi focolai, appunto in Spagna.
Alla fine del secolo scorso si può comunque affermare con certezza che le malattie per le quali si muore o si guarisce sono ridotte a numeri praticamente trascurabili. L’esito in guarigione o in morte lascia ampio spazio ad una terza via che è quella della cronicizzazione: strada lunga, a volte penosa, fatta di sali scendi e interrotta da complicazioni non sempre di carattere strettamente sanitario.
Queste “nuove” malattie logoranti e profonde si sono manifestate parallelamente all’avanzata della civiltà industriale e quindi nei paesi che hanno avuto uno sviluppo in questa direzione: nell’occidente civilizzato e progredito le mutate condizioni igienico sanitarie insieme a quelle economiche e sociali e ad alcuni importati progressi medici, hanno prodotto questi profondi cambiamenti nell’epidemiologia delle popolazioni. Le malattie degenerative ora dominano il campo medico sanitario e condizionano le scelte economiche e i piani di spesa.
Il processo degenerativo è la costante biologica che sta alla base del processo di logoramento del sistema: degenerano in primo luogo le cellule ma anche i meccanismi che regolano la comunicazione tra di esse, cioè l’apparato vascolare e quello nervoso; i due grandi capitoli sono: i tumori (maligni) e i processi trombotici. Il tumore è l’espressione della perdita del controllo della crescita cellulare e si traduce nella neoformazione anomala e incontrollata di un massa estranea, invasiva e quindi dannosa per l’ospite predestinato. I processi trombotici sono espressione di alterazioni profonde e continuative sia a carico dei complessi processi coagulativo / aggregativi sia a carico della parete dei vasi arteriosi: l’esito ultimo è l’infarto miocardio e l’ictus cerebro vascolare passando per l’ischemia coronarica e cerebrale nelle varie manifestazioni di intensità e durata.
Da queste elementarissime nozioni di fisiopatologia ci si può addentrare fin nei più profondi meandri delle conoscenze specialistiche nel tentativo, spesso non vano, di limitare / arginare / frenare / “cronicizzate”, raramente di “guarire”.
Ma la persona dov’è, in questo processo di ricerca della salute perduta? E dov’è il suo mondo di sensazioni, di problemi, di emozioni, di contatti; dov’è insomma la sua vita o quel che resta degno di essere vissuto?
La persona è immersa anima e corpo nel processo di diagnosi e cura mantenendo costantemente una posizione primaria in quanto unico decisore delle scelte strategiche ed elemento forte del binomio relazionale medico paziente.
La conoscenza sempre più approfondita delle malattie croniche e il contatto sempre più stretto con i malati cronici ha orientato i medici verso l’adozione di modelli culturali e relazionali più maturi e appropriati: è stato superato quasi completamente il cosiddetto “paternalismo” medico, condizione in cui il sanitario appariva dall’alto della sua superiorità e tranquillizzava con la pacca sulla spalla senza fornire spiegazioni, oppure “sentenziava” un triste e inappellabile destino. Lo stato di cronicità necessita di un approccio profondamente diverso che parta da una riflessione profonda sui limiti della medicina, che valuti attentamente la realtà sociale che produce cronicità, che ponderi in modo corretto le variabili soggettive (emozionali, familiari, amicali) che sembrano interferire col processo di cura ma in realtà lo integrano e lo arricchiscono.
In questo speciale contesto occorre quindi una figura nuova di sanitario che sappia “leggere” tutti gli aspetti utili (ma anche quelli che possono sembrare inutili) che vanno a formare i primi piani e lo sfondo della cronicità; e occorre anche una figura nuova di paziente che si affidi con misura e con responsabilità e che, attraverso una corretta e puntuale informazione, partecipi alla responsabilità del percorso di ricerca e di cura.
Forse appare chiaro da quanto già detto che la cronicità non può essere definita come la semplice somma di malattie non guarite, oppure un unico processo patologico permanente, oppure ancora semplice espressione di necessità di contatti ripetuti nel tempo col personale sanitario per “controlli”. Una definizione di cronicità la dobbiamo piuttosto ricercare in ambito sociologico o antropologico dovendo necessariamente essere valutati tutti i parametri medico sociali che esprimono la perdita di autonomia e di indipendenza, il livello di fragilità e di disabilità e il grado di isolamento sociale ed emozionale dell’individuo.
Su questo terreno la Medicina Generale si può senz’altro mettere in gioco potendo disporre dei mezzi di conoscenza sufficienti ad approfondire i rapporti con i pazienti e con le loro famiglie in particolare con la presenza al loro domicilio: infatti l’abitazione privata è sempre luogo d’incontro privilegiato per il malato cronico, disabile, dipendente, non più autonomo; è il crocevia dove si intrecciano varie competenze e dove si incrociano le figura più diverse: l’assistente domiciliare, l’infermiere territoriale, lo specialista ospedaliero (in casi particolari, ma sempre più frequentemente), l’assistente privato magari extracomunitario, il vicino di casa, l’amico, il parente, il prete.

MALATTIE CRONICHE => CRONICITA’ => DISABILITA’ COMPLESSA

Il fenomeno demografico più importante presente in tutti i paesi occidentali è l’allungamento della vita media della popolazione e quindi l’aumento del numero di persone anziane; questo dato di fatto dipende principalmente dalla riduzione della mortalità infantile, dalla scomparsa di alcune delle malattie acute infettive ed epidemiche e dalla curabilità (non guaribilità) di quadri patologici a sviluppo acuto successivamente evoluti; conseguenza inevitabile di questo cambiamento epidemiologico è stata la comparsa e la diffusione delle malattie degenerative croniche caratterizzate da un lento decorso, difficilmente curabili e spesso fonti di invalidità permanenti.
Da qui è fin troppo facile capire quanto possano influire sulla sofferenza individuale e sui costi (in senso lato) familiari e sociali, malattie come i tumori, l’infarto miocardio, l’ictus cerebro vascolare, il diabete, l’osteoartrosi, l’artrite o la depressione.
Quando si riflette sul livello di cronicità relativo a una persona, viene fatto di assimilarla alla definizione e al numero delle malattie croniche presenti: ne deriverebbe un freddo elenco o una classifica (dalla più importante alla meno) di definizioni / etichette patologiche che poco hanno a che fare con l’individuo a cui si riferiscono, alla sua vita, alla sua cultura, ai suoi contatti, alle sue esigenze.
Una descrizione un po’ più ampia della cronicità può nascere dall’ambito della medicina generale, dove si osserva il malato nella sua complessità, dove si cerca di percepire i bisogni e dove si concordano e si coordinano le strategie di intervento (medico – psicologico – sociale – assistenziale) non con l’intento utopistico di risolvere ma di contribuire a conservare una accettabile qualità di vita.
La cronicità è una complessa interazione di variabili: una relazione impegnativa dell’ammalato con se stesso, tra uomo e malattia, tra ammalato e medicina, tra ammalato e struttura sociale; come scrive un medico di medicina generale che ha studiato per anni il mondo della cronicità.
La malattia scopre una parte di noi stessi che non conoscevamo e che non ci piace e quindi ci provoca una crisi profonda d’identità (chi sono? Sono ancora io? Dove vado? Perché?); ci pone di fronte all’accettazione o al rifiuto della malattia come parte di noi stessi (possiamo ignorarla? Dobbiamo accettarla?); ci costringe al rapporto stretto e a volte forzoso con le strutture medico assistenziali deputate alla gestione e al controllo; crea nuovi rapporti all’interno della famiglia e della società; origina dipendenze, disabilità, deficit, isolamento personale e sociale.
E’ quindi destino inevitabile che la cronicità grave porti con sé perdita delle funzioni complesse dell’individuo sia sul piano fisico (disabilità e quindi dipendenza di tipo fisico) sia sul piano mentale (perdita di autonomia decisionale e quindi dipendenza di tipo psicologico) sia sul piano sociale (isolamento e solitudine).
Ma come si può valutare e studiare questo mondo complesso?
Una recente indagine dell’ISTAT ha valutato lo stato di salute della popolazione a partire da una valutazione soggettiva cioè secondo il punto di vista della popolazione stessa: sono stati individuati due indici, uno indicativo dello stato fisico e l’altro dello stato psicologico definendo dei punteggi relativi; i due punteggi si riducono progressivamente in rapporto all’invecchiamento, cioè la popolazione sta peggio fisicamente e psicologicamente in rapporto all’età; l’indice psicologico, però, si riduce di meno di quello fisico indicando una buona percezione di salute anche in presenza di gravi menomazioni fisiche. Questo importante fenomeno difensivo chiamato anche il “paradosso della disabilità”, sta ad esprimere l’esistenza di un processo di adattamento alla patologia / stato cronico, una specie di convivenza pacifica che si verifica allorché la personalità dell’individuo riesce a far fronte alle difficoltà e alle sofferenze potenziando gli aspetti positivi del pensiero e vincendo la paura della malattia e della morte.
Nell’ottica di una medicina orientata al paziente è fondamentale riuscire a percepire, a comprendere e a rispettare le decisioni del paziente che, anziché fornire ostacolo all’azione, potranno essere di essenziale supporto alla decisione clinica e assistenziale.
Il contributo che la medicina generale può cominciare a fornire al mondo sanitario è basato sulla conoscenza del processo di cronicità fin dalle sue origini e cioè fino da quando si manifestano le malattie e inizia il rapporto con la medicina e con i farmaci.
Una recente ricerca condotta a livello nazionale da medici di medicina generale ha studiato tre livelli di cronicità: lieve, media e grave distinti in base a livelli ingravescenti di limitazioni delle funzioni vitali, dell’autonomia e della presenza o meno di una qualche forma di dipendenza. In base a queste osservazioni si può affermare che la cronicità inizia nella fascia d’età che va dai 40 ai 65 anni dove ritroviamo, come patologie prevalenti, l’ipertensione arteriosa, le malattie osteoarticolari, la depressione, il diabete, le malattie respiratorie e cardiovascolari.
Nel gruppo dei cronici medi (area di inizio di disabilità lieve media) la fascia d’età prevalente si innalza tra i 65 e gli 80 anni ma le patologie rimangono sostanzialmente le stesse mentre ci possono essere iniziali modifiche dei comportamenti di vita e coinvolgimenti del coniuge e della famiglia.
I cronici gravi (in prevalenza ultraottantenni) hanno quasi sempre patologie pesantemente invalidanti come le vasculopatie cerebrali e la demenza pur essendo ancora presenti le malattie che possiamo definire “trasversali” come l’osteoartrosi, la depressione e l’ipertensione arteriosa. In questa categoria di paziente la disabilità, la perdita di autonomia e la dipendenza raggiungono i massimi livelli di gravità mentre assume un valore aggravante quella che viene denominata fragilità individuale cioè una debolezza intrinseca all’individuo accumulata negli anni che lo espone a ricadute e non permette recuperi. In questa fase sembra quasi che il ruolo del medico riduca il suo valore ed efficacia mentre risulta predominante la famiglia (il consorte e i figli) e, in sua assenza, la rete sociale.
Da quanto esposto può scaturire l’importanza di individuare precocemente le malattie croniche a rischio assieme alle “persone croniche a rischio” che possono essere tali anche in età relativamente giovanile.
E’ tempo che le isolate nozioni mediche si trasformino in cultura affinché si possa acquisire la reale portata dell’efficacia dei cambiamenti di stile di vita sulla comparsa e l’evoluzione della malattia e sul mantenimento dello stato di salute con una qualità di vita desiderabile.