sabato 20 aprile 2013

Sostituibilità tra farmaco di marca e equivalenti.


Il problema della sostituibilità tra farmaco di marca (o brand) e equivalenti (o generici) nasce più di quindici anni fa cioè al momento dell'introduzione in commercio di farmaci equivalenti a quelli a brevetto scaduto (legge n. 425 del 1996). Il farmaco generico o equivalente è definito come “un medicinale a base di uno o più principi attivi, prodotto industrialmente, non protetto da brevetto o da certificato protettivo complementare, identificato dalla denominazione comune internazionale del principio attivo o, in mancanza di questa, dalla denominazione scientifica del medicinale, seguita dal nome del titolare dell'Autorizzazione all'Immissione in Commercio (AIC), che sia bioequivalente rispetto ad una specialità medicinale già autorizzata con la stessa composizione quali-quantitativa in principi attivi, la stessa forma farmaceutica e le stesse indicazioni terapeutiche”.


Bioequivalenza: equivalenza della biodisponibilità del principio attivo tra due formulazioni
Biodisponibilità: l'entità e la velocità con le quali il principio attivo viene rilasciato da una forma farmaceutica ed è reso disponibile nella circolazione sistemica



Quindi il concetto da approfondire e chiarificare è quello della bioequivalenza che esprime l'equivalenza della biodisponibilità del principio attivo tra due formulazioni. Allora andiamo ad esaminare la definizione precisa di biodisponibilità:
la biodisponibilità rappresenta l'entità e la velocità con le quali il principio attivo viene rilasciato da una forma farmaceutica ed è reso disponibile nella circolazione sistemica”.
La biodisponibilità appartiene al campo della farmacocinetica e su questa si basa la differenza tra brand e equivalente legata esclusivamente agli eccipienti che, per legge, possono variare da un preparato all'altro.
I test di bioequivalenza sono convenzionalmente basati sul confronto statistico di tre parametri farmacocinetici quali l'AUC (area under curve), il Cmax e il Tmax. Per AUC si intende l'area sotto la curva che è proporzionale alla quantità di farmaco presente nell'organismo; il Cmax indica il picco di concentrazione plasmatica; il Tmax indica il tempo necessario a raggiungere la Cmax (vedi grafici).


Curva concentrazione/tempo di un farmaco di esempioCurva concentrazione/tempo tra riferimento e equivalente.



Parametri di biodisponibilità
AUC (area under the curve)Area sottesa alla curva che è proporzionale alla quantità di farmaco presente nell'organismo
CmaxPicco di concentrazione plasmatica
TmaxTempo necessario a raggiungere la Cmax



Nella stima dei tre parametri descritti sopra viene utilizzato, per convenzione internazionale, un intervallo di confidenza al 90% mentre l'intervallo accettabile viene compreso tra 0.80 e 1.25; il che corrisponde al +/- 20% a cui si fa spesso riferimento quando si parla di bioequivalenza.
Il valore del 20% è stato scelto perché i fenomeni biologici sono variabili, infatti due unità posologiche dello stesso farmaco, somministrate a due differenti soggetti o in diversi momenti, danno curve di biodisponibilità differenti entro un range del 20%. In base agli studi clinici si è concluso che la variabilità individuale della risposta terapeutica è generalmente maggiore del range di variabilità fissato per il test di bioequivalenza. Quanto affermato vale per la maggior parte dei casi mentre ci sono almeno due circostanze che richiedono particolare attenzione: la prima riguarda la prescrizione di farmaci con indice terapeutico ristretto, la seconda è relativa alle sottopopolazioni di pazienti fragili.
Per indice terapeutico si intende il rapporto tra la dose letale 50 e la dose efficace 50 ed esprime
una misura della sicurezza di un farmaco, in quanto un valore elevato indica che la massima dose tollerabile (DL50) offre un buon margine di sicurezza rispetto alla dose necessaria per indurre una risposta positiva. I farmaci con basso indice terapeutico sono indicati in tabella insieme a quelli che posseggono una ampia variabilità individuale.


FARMACI a BASSO INDICE TERAPEUTICO (IT) – IT = DL50/DE50
Digossina, Litio, Fenitoina, Teofillina, Warfarin, Levotiroxina, Ciclosporina, Amiodarone
fARMACI ad ALTA VARIABILITà INTRASOGGETTIVA
Propafenone, Verapamil


Per fragile si intende quel paziente in cui modificazioni relativamente piccole della concentrazione plasmatica di farmaci specifici possono comportare conseguenze gravi in termini di effetti avversi o perdita di efficacia.
Inoltre nella sostituzione da brand a equivalente ma anche tra tra equivalenti di ditte distributrici diverse si deve tener conto anche di una fragilità cognitiva e socio assistenziale per cui si potrebbero creare criticità anche gravi di fronte al cambiamento della confezione di farmaco.
Il problema invece delle diverse indicazioni sul Riepilogo delle Caratteristiche del Prodotto (ex scheda tecnica) è stato risolto dall'AIFA che avverte di fare riferimento alle indicazioni riportate sul RCP del farmaco di marca.
L'ultima raccomandazione riguarda il dovere della farmacovigilanza, che nel campo dei farmaci equivalenti acquista, se possibile, un'importanza anche maggiore. La segnalazione di sospetto evento avverso dovuto agli eccipienti è una circostanza rara ma proprio per questo non deve sfuggire all'osservazione del medico.



Bibliografia essenziale:
BIOEQUIVALENZA: LA NUOVA LINEA GUIDA DELL’EMEA – A. Tajana. 49° Simposio AFI – Giugno 2009
Dialogo sui Farmaci – monografia I medicinali equivalenti. Cordella et al. Novembre 2011.

domenica 14 novembre 2010

Cronicità e disabilità

Presento due articoli un po' datati ma, secondo me, ancora ahimè abbastanza attuali: segno che il trascorrere del tempo non ha concesso alla medicina delle prime cure di mostrare il suo vero volto e il suo naturale significato.



La medicina generale come spazio naturale della cronicità.

Dal dopoguerra ad oggi siano stati progressivamente abituati ad una modifica delle patologie a grande diffusione: abbiamo assistito al decremento dei grandi quadri epidemico/pandemici che hanno mietuto vittime durante tutti i secoli passati e fino ai giorni nostri. Il ricordo corre immediatamente al colera di Napoli degli anni ’60 come ultimo devastante episodio legato a un agente infettivo (il vibrione); se si è in vena di citazioni letterarie si possono citare le tre classiche pesti della storia dell’uomo: quella del Boccaccio, quella dei Promessi Sposi del Manzoni e quella recente di Albert Camus; ma se attingiamo al ricordo dei nostri grandi vecchi possiamo avere notizie dirette della pandemia influenzale detta “la spagnola” che sconvolse l’Europa a cavallo degli anni 1918-19 e che si riteneva iniziata, con i primi focolai, appunto in Spagna.
Alla fine del secolo scorso si può comunque affermare con certezza che le malattie per le quali si muore o si guarisce sono ridotte a numeri praticamente trascurabili. L’esito in guarigione o in morte lascia ampio spazio ad una terza via che è quella della cronicizzazione: strada lunga, a volte penosa, fatta di sali scendi e interrotta da complicazioni non sempre di carattere strettamente sanitario.
Queste “nuove” malattie logoranti e profonde si sono manifestate parallelamente all’avanzata della civiltà industriale e quindi nei paesi che hanno avuto uno sviluppo in questa direzione: nell’occidente civilizzato e progredito le mutate condizioni igienico sanitarie insieme a quelle economiche e sociali e ad alcuni importati progressi medici, hanno prodotto questi profondi cambiamenti nell’epidemiologia delle popolazioni. Le malattie degenerative ora dominano il campo medico sanitario e condizionano le scelte economiche e i piani di spesa.
Il processo degenerativo è la costante biologica che sta alla base del processo di logoramento del sistema: degenerano in primo luogo le cellule ma anche i meccanismi che regolano la comunicazione tra di esse, cioè l’apparato vascolare e quello nervoso; i due grandi capitoli sono: i tumori (maligni) e i processi trombotici. Il tumore è l’espressione della perdita del controllo della crescita cellulare e si traduce nella neoformazione anomala e incontrollata di un massa estranea, invasiva e quindi dannosa per l’ospite predestinato. I processi trombotici sono espressione di alterazioni profonde e continuative sia a carico dei complessi processi coagulativo / aggregativi sia a carico della parete dei vasi arteriosi: l’esito ultimo è l’infarto miocardio e l’ictus cerebro vascolare passando per l’ischemia coronarica e cerebrale nelle varie manifestazioni di intensità e durata.
Da queste elementarissime nozioni di fisiopatologia ci si può addentrare fin nei più profondi meandri delle conoscenze specialistiche nel tentativo, spesso non vano, di limitare / arginare / frenare / “cronicizzate”, raramente di “guarire”.
Ma la persona dov’è, in questo processo di ricerca della salute perduta? E dov’è il suo mondo di sensazioni, di problemi, di emozioni, di contatti; dov’è insomma la sua vita o quel che resta degno di essere vissuto?
La persona è immersa anima e corpo nel processo di diagnosi e cura mantenendo costantemente una posizione primaria in quanto unico decisore delle scelte strategiche ed elemento forte del binomio relazionale medico paziente.
La conoscenza sempre più approfondita delle malattie croniche e il contatto sempre più stretto con i malati cronici ha orientato i medici verso l’adozione di modelli culturali e relazionali più maturi e appropriati: è stato superato quasi completamente il cosiddetto “paternalismo” medico, condizione in cui il sanitario appariva dall’alto della sua superiorità e tranquillizzava con la pacca sulla spalla senza fornire spiegazioni, oppure “sentenziava” un triste e inappellabile destino. Lo stato di cronicità necessita di un approccio profondamente diverso che parta da una riflessione profonda sui limiti della medicina, che valuti attentamente la realtà sociale che produce cronicità, che ponderi in modo corretto le variabili soggettive (emozionali, familiari, amicali) che sembrano interferire col processo di cura ma in realtà lo integrano e lo arricchiscono.
In questo speciale contesto occorre quindi una figura nuova di sanitario che sappia “leggere” tutti gli aspetti utili (ma anche quelli che possono sembrare inutili) che vanno a formare i primi piani e lo sfondo della cronicità; e occorre anche una figura nuova di paziente che si affidi con misura e con responsabilità e che, attraverso una corretta e puntuale informazione, partecipi alla responsabilità del percorso di ricerca e di cura.
Forse appare chiaro da quanto già detto che la cronicità non può essere definita come la semplice somma di malattie non guarite, oppure un unico processo patologico permanente, oppure ancora semplice espressione di necessità di contatti ripetuti nel tempo col personale sanitario per “controlli”. Una definizione di cronicità la dobbiamo piuttosto ricercare in ambito sociologico o antropologico dovendo necessariamente essere valutati tutti i parametri medico sociali che esprimono la perdita di autonomia e di indipendenza, il livello di fragilità e di disabilità e il grado di isolamento sociale ed emozionale dell’individuo.
Su questo terreno la Medicina Generale si può senz’altro mettere in gioco potendo disporre dei mezzi di conoscenza sufficienti ad approfondire i rapporti con i pazienti e con le loro famiglie in particolare con la presenza al loro domicilio: infatti l’abitazione privata è sempre luogo d’incontro privilegiato per il malato cronico, disabile, dipendente, non più autonomo; è il crocevia dove si intrecciano varie competenze e dove si incrociano le figura più diverse: l’assistente domiciliare, l’infermiere territoriale, lo specialista ospedaliero (in casi particolari, ma sempre più frequentemente), l’assistente privato magari extracomunitario, il vicino di casa, l’amico, il parente, il prete.

MALATTIE CRONICHE => CRONICITA’ => DISABILITA’ COMPLESSA

Il fenomeno demografico più importante presente in tutti i paesi occidentali è l’allungamento della vita media della popolazione e quindi l’aumento del numero di persone anziane; questo dato di fatto dipende principalmente dalla riduzione della mortalità infantile, dalla scomparsa di alcune delle malattie acute infettive ed epidemiche e dalla curabilità (non guaribilità) di quadri patologici a sviluppo acuto successivamente evoluti; conseguenza inevitabile di questo cambiamento epidemiologico è stata la comparsa e la diffusione delle malattie degenerative croniche caratterizzate da un lento decorso, difficilmente curabili e spesso fonti di invalidità permanenti.
Da qui è fin troppo facile capire quanto possano influire sulla sofferenza individuale e sui costi (in senso lato) familiari e sociali, malattie come i tumori, l’infarto miocardio, l’ictus cerebro vascolare, il diabete, l’osteoartrosi, l’artrite o la depressione.
Quando si riflette sul livello di cronicità relativo a una persona, viene fatto di assimilarla alla definizione e al numero delle malattie croniche presenti: ne deriverebbe un freddo elenco o una classifica (dalla più importante alla meno) di definizioni / etichette patologiche che poco hanno a che fare con l’individuo a cui si riferiscono, alla sua vita, alla sua cultura, ai suoi contatti, alle sue esigenze.
Una descrizione un po’ più ampia della cronicità può nascere dall’ambito della medicina generale, dove si osserva il malato nella sua complessità, dove si cerca di percepire i bisogni e dove si concordano e si coordinano le strategie di intervento (medico – psicologico – sociale – assistenziale) non con l’intento utopistico di risolvere ma di contribuire a conservare una accettabile qualità di vita.
La cronicità è una complessa interazione di variabili: una relazione impegnativa dell’ammalato con se stesso, tra uomo e malattia, tra ammalato e medicina, tra ammalato e struttura sociale; come scrive un medico di medicina generale che ha studiato per anni il mondo della cronicità.
La malattia scopre una parte di noi stessi che non conoscevamo e che non ci piace e quindi ci provoca una crisi profonda d’identità (chi sono? Sono ancora io? Dove vado? Perché?); ci pone di fronte all’accettazione o al rifiuto della malattia come parte di noi stessi (possiamo ignorarla? Dobbiamo accettarla?); ci costringe al rapporto stretto e a volte forzoso con le strutture medico assistenziali deputate alla gestione e al controllo; crea nuovi rapporti all’interno della famiglia e della società; origina dipendenze, disabilità, deficit, isolamento personale e sociale.
E’ quindi destino inevitabile che la cronicità grave porti con sé perdita delle funzioni complesse dell’individuo sia sul piano fisico (disabilità e quindi dipendenza di tipo fisico) sia sul piano mentale (perdita di autonomia decisionale e quindi dipendenza di tipo psicologico) sia sul piano sociale (isolamento e solitudine).
Ma come si può valutare e studiare questo mondo complesso?
Una recente indagine dell’ISTAT ha valutato lo stato di salute della popolazione a partire da una valutazione soggettiva cioè secondo il punto di vista della popolazione stessa: sono stati individuati due indici, uno indicativo dello stato fisico e l’altro dello stato psicologico definendo dei punteggi relativi; i due punteggi si riducono progressivamente in rapporto all’invecchiamento, cioè la popolazione sta peggio fisicamente e psicologicamente in rapporto all’età; l’indice psicologico, però, si riduce di meno di quello fisico indicando una buona percezione di salute anche in presenza di gravi menomazioni fisiche. Questo importante fenomeno difensivo chiamato anche il “paradosso della disabilità”, sta ad esprimere l’esistenza di un processo di adattamento alla patologia / stato cronico, una specie di convivenza pacifica che si verifica allorché la personalità dell’individuo riesce a far fronte alle difficoltà e alle sofferenze potenziando gli aspetti positivi del pensiero e vincendo la paura della malattia e della morte.
Nell’ottica di una medicina orientata al paziente è fondamentale riuscire a percepire, a comprendere e a rispettare le decisioni del paziente che, anziché fornire ostacolo all’azione, potranno essere di essenziale supporto alla decisione clinica e assistenziale.
Il contributo che la medicina generale può cominciare a fornire al mondo sanitario è basato sulla conoscenza del processo di cronicità fin dalle sue origini e cioè fino da quando si manifestano le malattie e inizia il rapporto con la medicina e con i farmaci.
Una recente ricerca condotta a livello nazionale da medici di medicina generale ha studiato tre livelli di cronicità: lieve, media e grave distinti in base a livelli ingravescenti di limitazioni delle funzioni vitali, dell’autonomia e della presenza o meno di una qualche forma di dipendenza. In base a queste osservazioni si può affermare che la cronicità inizia nella fascia d’età che va dai 40 ai 65 anni dove ritroviamo, come patologie prevalenti, l’ipertensione arteriosa, le malattie osteoarticolari, la depressione, il diabete, le malattie respiratorie e cardiovascolari.
Nel gruppo dei cronici medi (area di inizio di disabilità lieve media) la fascia d’età prevalente si innalza tra i 65 e gli 80 anni ma le patologie rimangono sostanzialmente le stesse mentre ci possono essere iniziali modifiche dei comportamenti di vita e coinvolgimenti del coniuge e della famiglia.
I cronici gravi (in prevalenza ultraottantenni) hanno quasi sempre patologie pesantemente invalidanti come le vasculopatie cerebrali e la demenza pur essendo ancora presenti le malattie che possiamo definire “trasversali” come l’osteoartrosi, la depressione e l’ipertensione arteriosa. In questa categoria di paziente la disabilità, la perdita di autonomia e la dipendenza raggiungono i massimi livelli di gravità mentre assume un valore aggravante quella che viene denominata fragilità individuale cioè una debolezza intrinseca all’individuo accumulata negli anni che lo espone a ricadute e non permette recuperi. In questa fase sembra quasi che il ruolo del medico riduca il suo valore ed efficacia mentre risulta predominante la famiglia (il consorte e i figli) e, in sua assenza, la rete sociale.
Da quanto esposto può scaturire l’importanza di individuare precocemente le malattie croniche a rischio assieme alle “persone croniche a rischio” che possono essere tali anche in età relativamente giovanile.
E’ tempo che le isolate nozioni mediche si trasformino in cultura affinché si possa acquisire la reale portata dell’efficacia dei cambiamenti di stile di vita sulla comparsa e l’evoluzione della malattia e sul mantenimento dello stato di salute con una qualità di vita desiderabile.

sabato 29 settembre 2007

Il valore dei dati

Per chi possiede un archivio informatico della propria attivita' e' utile acquisire un metodo per elaborare i dati e condividerli.
Quasi tutti i programmi di cartella clinica possiedono un programma interno (in genere basato sul linguaggio SQL) che e' adatto a estrarre e elaborare i dati clinici.
Si puo' partire da una estrazione semplicemente descrittiva (quanti ipertesi fumatori) per accedere a veri e propri audit clinici (come cambia la mia attivita' nel tempo riguardo al controllo dei fattori di rischio CV).
Un esempio?
Con l'aiuto di qualche volenteroso ed esperto collega si impara a lanciare una query SQL attraverso il programma utilita' di Millewin (per citare la mia cartella elettronica).
Il comando e' il seguente:

SELECT DISTINCTp.cognome,p.nome,p.sesso,YEARS(p.datanasc,TODAY()) AS Eta,a.datavisita, (CASE a.risults WHEN 'P' THEN 'Pipa'WHEN 'S' THEN 'Sigaro' WHEN '1' THEN 'Meno di 10 sigarette al giorno'WHEN '2' THEN 'Undici-venti sigarette al giorno'WHEN '3' THEN 'Oltre 20 sigarette al giorno'WHEN 'X' THEN 'Non ha mai fumato e verosimilmente non fumerà in futuro'WHEN 'N' THEN 'Non ha mai fumato'WHEN 'E' THEN 'Ex fumatore - cessato da più di un anno'WHEN 'M' THEN 'Ex fumatore'WHEN 'F' THEN 'Ex forte fumatore - cessato da più di dieci anni'WHEN 'Z' THEN 'Ex forte fumatore - cessato da più di un anno'WHEN 'U' THEN 'Ex forte fumatore'WHEN 'O' THEN 'Fumatore occasionale'WHEN 'V' THEN 'Fumo passivo'ELSE 'Non registrato' END) AS Risultato_FumoFROM ((V_PAZIENTI p LEFT OUTER JOIN V_ACCERTAMENTI a ON p.codice=a.codice AND a.accertamento LIKE 'fumo%') LEFT OUTER JOIN V_PROBLEMI pp ON p.codice=pp.codice)WHERE(a.datavisita >=ALL (Select a1.datavisita from v_accertamenti a1 Where a1.codice=a.codice and a1.accertamento=a.accertamento))ANDp.datarevoca IS NULLAND p.datadecess IS NULLAND pp.problema LIKE 'Ipertensione%' ORDER BY p.cognome,p.nome

Basta incollarlo nella finestra SQL di mille utilita' che appare dal menu "estrazioni SQL personali"; occorre naturalmente aprire una ricerca nuova e dare un titolo.
La ricerca e' interessante perche' permette di valutare i pazienti privi del dato fumo in cartella e quindi di migliorare la qualità della base dati.

Il problema della trasferibilità pratica delle linee guida

Sto preparando una presentazione sull'impatto delle linee guida nella pratica del medico di medicina generale.
Vorrei partire riflettendo sul profondo cambiamento a cui è stata sottoposta la medicina e la sanità in generale negli ultimi venti anni. Tale mutazione è stata forse innescata dai nuovi valori che la società ha offerta ai suoi cittadini piuttosto che da veri e propri progressi scientifici. In realtà non c'è stato un miglioramaento assoluto dello stato di salute ma solo uno spostamento nello stile di ammalarsi: da malattie infettive orgogliosamente abbattute e vinte dagli antibiotici alle malattie degenerative che scivolano nella cronicità senza alcun esito in guarigione.
.....
working in progress

lunedì 9 aprile 2007

Il guaritore ferito

Caro Lettore
Voglio raccontarti il mito di Chirone che ci riporta alle estreme origini della medicina, là dove queste si perdono e si confondono con la forza evocativa della mitologia. Chissà che anche al mondo d’oggi non ci serva stimolare un po’ la fantasia e scoprire i poteri curativi dell’arte medica al di là degli indiscutibili progressi della tecnologia scientifica!
Dunque: Chirone era il più noto di tutti i centauri e, a differenza di questi, era dotato di grande bontà e saggezza ed era amico degli uomini e degli dei. Egli abitava in una grotta del monte Pelio in Tessaglia non lontano dal monte Olimpo, la residenza di tutte le divinità greche. La mitologia antica ce lo presenta come figlio illegittimo di Crono e della dolce Fillira e quindi addirittura fratellastro di Zeus, il signore di tutti gli dei, che donò al centauro l’immortalità. Chirone apprese l’arte della medicina e l’uso delle piante medicinali dalla sorellastra Artemide, che i romani chiamarono Diana, dea della caccia, degli animali selvatici e protettrice della natura. Fu maestro di Asclepio (l’Esculapio dei romani), il famoso dio della medicina e di molti altri grandi personaggi del mito antico quali Bacco, Ercole, Enea, Ulisse ma soprattutto Achille per il quale fu insostituibile pedagogo e medico; quest’ultimo infatti era ancora bambino e fu operato al calcagno da Chirone che gli sostituì l’osso bruciato a causa delle pratiche magiche della madre degenere Teti. La fine del centauro Chirone fu involontariamente segnata proprio dall’amico Eracle (Ercole). Andò così: dopo la sua terza fatica, quella della cattura del cinghiale di Erimanto, Eracle fece visita al centauro Folo il quale offrì del vino all’eroe aprendo la giara dei centauri; questi si adirarono, considerando il gesto come una violazione e si lanciarono contro Eracle che li respinse e ne uccise alcuni; i centauri, per difesa, si rifugiarono nella grotta di Chirone che, ignaro di ciò che stava succedendo, si fece incontro all’amico Eracle nell’istante esatto in cui questo scagliò una freccia che andò a colpire per errore il ginocchio del centauro. La ferita era profonda e inguaribile e a nulla servirono le immediate cure di Eracle e lo stesso potere curativo del centauro perché le frecce del potente eroe erano avvelenate col sangue dell’idra di Lerna; Chirone sarebbe stato condannato alla sofferenza eterna non potendo morire a causa della sua immortalità. Allora Zeus, mosso a compassione, permise a Chirone di donare la sua immortalità al titano Prometeo che aveva fatto adirare il re degli dei per aver donato il fuoco agli uomini. Così la morte di Chirone salvò il generoso Prometeo e con lui tutti gli uomini.

Chirone è un eroe riparatore di colpe e di malattie e rappresenta la grande ambivalenza, oggi smarrita, tra l’ammalato guaritore e il guaritore ammalato: un’ambivalenza che media le diverse condizioni della persona ed esprime il rapporto bidirezionale tra medico e paziente come negoziato culturale che sviluppa un atto decisionale diagnostico e terapeutico.
Mai come in questo momento storico c’è estrema necessità di una figura nuova di medico che sappia derivare l’atto terapeutico da una piena condivisione col paziente di fatti vissuti ma anche di sentimenti e passioni. In questa ottica il medico come “guaritore ferito”, cioè che fa esperienza di malattia, acquisisce una capacità nuova di interpretazione degli eventi e il suo potenziale terapeutico è direttamente proporzionale alla sua capacità di sopportare e curare le proprie ferite oppure di affrontare la morte.
Il concetto viene ben chiarito ed esasperato da questo passo di Victor Von Weizsacker, un medico psichiatra tedesco dell’ottocento: “Solo se la natura presente nel medico viene toccata, contagiata, stimolata, spaventata, scossa, solo se la malattia si trasmette su di lui, prosegue in lui e, filtrata dalla sua coscienza, viene ricondotta a se stessa, solo allora e solo finché questo avviene, è possibile che il medico vinca la malattia”. Aggiungo io, la propria e l’altrui.
Anche molti studi antropologici ci aiutano a capire questo archetipo che trae origine dal centauro ferito. Si legge infatti che anche per accedere al rango di sciamano il requisito essenziale è quello di possedere una piaga, un qualche difetto, una malattia cronica, una disabilità evidente; inoltre nella biografia dello sciamano, ma anche in quella di alcuni grandi professionisti dell’aiuto, è presente un periodo di ritiro e di isolamento, col significato quasi di una purificazione, al termine del quale il guaritore ritorna all’interno della tribù con una consapevolezza nuova della sua vulnerabilità e, insieme, della sua arte e della sua funzione (da L’Arco di Giano – 2000).
La medicina, che chiede a gran voce da parte dei pazienti di essere umanizzata, avrebbe una risposta concreta dall’interno, quella proveniente da un medico simbolicamente “guaritore ferito”, e quindi non solo
rispettoso della soggettività del malato, ma anche interiormente consapevole del peso della sofferenza e del dolore.
Ma in quale senso il medico pur “ferito” rimane “guaritore”?
Al di là dei ruoli costruiti sulle regole della società civile che, banalmente, assegna potere terapeutico all’autorità medica (la fama del grande clinico o chirurgo fa la vera medicina), il vero medico, a cominciare dal più piccolo di essi, per poter curare non deve mai pensarsi separato dall’essere paziente egli stesso. Analogamente deve accadere per il paziente che, quando si ammala, trova in se stesso un “guaritore interno” la cui azione viene messa a confronto con quella del medico; da questo fertile incontro nasce un progetto e una strategia curativa che è destinata ad avere successo nel tempo.
Il comune pensiero collettivo ci porta spesso ad esprimere sorpresa di fronte al medico “ferito”, che, vorremmo magicamente immune dal giogo della malattia; d’altra parte non è necessario che tutti i medici si ammalino per poter conservare le loro capacità curative, è sufficiente che ogni operatore della salute e dell’aiuto lasci emergere il paziente che risiede in lui, riconosca la propria umanità e permetta che questa entri a far parte del rapporto negoziale tra curato e curante proprio come un vero strumento di terapia alla pari del bagaglio delle migliori acquisizioni scientifiche disponibili.
L’empatia che scaturisce da un rapporto così equilibrato (e forse ideale) è indispensabile nelle scelte tra il necessario e il superfluo, tra l’utile e il dannoso, tra l’eccessivo e il difettivo. Un medico “padrone”, nel senso descritto, di tutti quegli strumenti (scientifici e comunicativi) li userà orientandoli a beneficio della persona ammalata piuttosto che della malattia e sarà consapevole del valore del progresso tecnologico senza lasciarsi dominare da esso.

Alessandro Del Carlo